Empatia: luci e ombre dell’arte del sentire

L’empatia è una facoltà di fondamentale importanza per gli esseri umani (e non solo), poiché favorisce la comprensione reciproca attraverso un linguaggio – quello delle emozioni – comune a tutti e fonte primaria di nutrimento per le relazioni affettive.
Tuttavia, ultimamente è diventato un termine un po’ inflazionato e di cui talvolta si fraintendono il significato e i risvolti psicologici più ampi, per cui credo sia utile fare chiarezza in merito.

Partiamo dall’assunto che “empatia” significa letteralmente “sentire dentro” e “sentire con”, cioè percepire ciò che sta provando un’altra persona, il suo vissuto di quel momento. Si tratta di una sorta di risonanza immediata, un vibrare su una frequenza comune, geneticamente predeterminata per scopi evolutivi.
Questa percezione è basata su una capacità innata del nostro sistema nervoso – avrete sentito parlare dei famosi “neuroni specchio” –, che può essere più o meno precisa e articolata, ma, salvo disfunzioni nel processo di sviluppo psico-emotivo o lesioni cerebrali, comunque sufficiente a farci comprendere l’emozione che sta provando un altro essere umano, proprio perché la possiamo sentire noi stessi. Questa “lettura” non riguarda una particolare tipologia di emozioni, ma può riferirsi all’intera gamma delle sfumature emozionali, primarie e non: posso sentire, e quindi riconoscere, che l’altro è arrabbiato, triste, deluso, sofferente, sorpreso, disgustato, allegro, impaurito, preoccupato, sollevato, gioioso, ecc.

Fin qui il discorso è relativamente semplice, ma siamo solo al punto di partenza. Una volta chiarito questo, è necessario approfondire il significato della facoltà empatica, per evitare banalizzazioni o distorsioni della stessa. Infatti, quando non compresa appieno, dall’essere uno straordinario canale di contatto tra le persone rischia di diventare inutile, quando non addirittura disfunzionale.

Iniziamo dall’analisi della sua utilità: essa si realizza appieno quando si raggiunge il delicato equilibrio tra vicinanza e distacco, ossia quando si è in grado di sentire le emozioni di un’altra persona e, allo stesso tempo, di non confonderle con le proprie.
In occasione delle lezioni che tengo sull’approccio rogersiano – per cui l’empatia è uno dei principi cardine nell’atteggiamento del terapeuta –, utilizzo spesso questa metafora per agevolare la comprensione del concetto:
immaginate di vedere una persona impantanata nelle sabbie mobili; chiaramente riconoscete che si trova in difficoltà e ha bisogno di aiuto, ma potete esserle utili solo se rimanete sul bordo della palude e le tendete la mano, perché se presi dallo slancio del salvatore vi buttate nelle sabbie mobili con lei, siete destinati a sprofondare entrambi.

In termini più diretti, sarebbe a dire: “io sento la tua emozione, la riconosco, ma non me ne faccio carico, perché sono in grado di mantenere il confine tra ciò che è tuo e ciò che è mio”. Quindi, attenzione a non confondere l’empatia con la “confluenza” – termine utilizzato in psicoterapia della gestalt per indicare una tipologia di contatto con l’ambiente priva di confini delineati – o con la “simbiosi” – modalità relazionale in cui si fondono e si perdono le identità individuali, spinte dal bisogno dell’altro come fonte di sopravvivenza emotiva.

Adesso proviamo a fare un altro passo per approfondire ulteriormente questa straordinaria facoltà che è l’empatia. Potrà sembrare controintuitivo, ma le persone realmente empatiche non sono sempre quelle più emotive, cioè che percepiscono più intensamente le emozioni o che le hanno sviluppate come canale primario nel rapporto con il mondo. Questo perché, ciascuno a suo modo, tutti sperimentiamo svariate emozioni, sia nostre che altrui. La differenza significativa che rende qualcuno più o meno empatico è quindi più qualitativa che quantitativa: sta nel “cosa ce ne facciamo” di questo sentire, come lo manifestiamo nelle relazioni con gli altri, e questo implica diverse funzioni riflessive e di intelligenza sociale. Per passare dal “materiale grezzo” delle emozioni ad un approccio umano improntato all’empatia sono necessari dei passaggi non sempre immediati e a volte faticosi da maturare.

L’autentica empatia si esprime nella capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, ossia immedesimarsi nel suo punto di vista, che ne influenza il vissuto emotivo, e rispettarlo profondamente. Quindi, due correlati essenziali dell’empatia funzionale sono l’assenza di giudizio e l’accettazione della diversità.
Come si può notare, una concezione più ampia dell’empatia coinvolge anche l’atteggiamento e il comportamento che teniamo nei confronti delle altre persone, che si esprimono come minimo nell’intenzione di non nuocere agli altri, e ad un livello superiore nell’essere partecipi della loro felicità e nel desiderio di essere di aiuto a chi ha bisogno. Motivo per cui si possono riconoscere anche dei sentimenti che ostacolano lo sviluppo e la manifestazione di un’autentica empatia: tra i principali la mancanza di considerazione, l’invidia e la presunzione.

Possiamo così vedere come l’empatia, da semplice facoltà innata comune a tutti, si configuri come una complessa arte del sentire, dove le informazioni raccolte circa il vissuto altrui diventano i colori per dipingere un quadro relazionale basato sull’attenzione per l’altro. Arrivo ad affermare che non c’è reale empatia se non c’è considerazione, rispetto e cura del vissuto altrui.

Alla radice di questa visione si trova una distinzione rispetto al riferimento che viene adottato implicitamente: nell’empatia disfunzionale ci si riferisce ai propri criteri e bisogni personali per interpretare (e a volte giudicare) il vissuto altrui, rimanendo in fondo legati al proprio ego; nell’empatia funzionale, al contrario, si accetta di assumere come criterio di riferimento il punto di vista dell’altro e ciò che sta vivendo, uscendo dai propri schemi abituali di azione e reazione. Si può tradurre come: “sento la tua emozione e reagisco sulla base delle mie modalità automatiche”, oppure “provo a mettermi nei tuoi panni e chiedermi come starei nella tua situazione”.
La questione, vista in tale ottica, riguarda il fatto che vi sia o meno uno spostamento dell’attenzione dai propri vissuti e bisogni a quelli di un’altra persona. Semplificando ed estremizzando il concetto per renderlo più evidente, potremmo distinguere tra una “empatia di pancia” più “egoista” e auto-riferita, e una “empatia di cuore” più “altruista” ed etero-riferita. Solo nella seconda forma essa è realmente di aiuto per migliorare la qualità delle relazioni con gli altri e diviene al contempo fonte di crescita per noi stessi.

Propongo un’altra metafora esemplificativa in merito: possiamo osservare la casa in cui vive qualcun altro restando comodamente seduti nella nostra, oppure provare ad entrare in casa sua e sperimentare che aria si respira, sempre ricordandoci di non fare modifiche nell’arredamento se non richieste, e di non portare poi l’eventuale peso trovato fino a casa nostra.

Per evitare fraintendimenti, può essere utile una postilla per chiarire che questo non significa essere per forza d’accordo con il punto di vista dell’altro, ma semplicemente accettarlo in quanto tale e accostarsi ad esso con la gentilezza che richiede qualsiasi vissuto umano. E’ profondamente differente dire: “ti capisco e ti rispetto, ma non sono d’accordo” dal sentenziare: “ti capisco e quindi ti indico cosa devi fare”.

Realisticamente, sappiamo che sarà improbabile riuscire ad immedesimarsi del tutto nel mondo interiore di qualcun altro, “indossare gli abiti” di quella persona con quella specifica storia; ma si può fare l’atto interiore di provare a posizionarsi nella sua prospettiva, e questo ci metterà sulla strada della reale empatia, dando di conseguenza una direzione coerente al nostro agire.

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